2019

L'Osteria a Padova e dintorni

(pubblicato nel 2019)

L'Osteria di Padova e dintorni

La porta aperta sulla piazza; aggrappati al bancone i soliti, abituali frequentatori;ai tavoli, altri con lo sguardo attento, le mani che passano sensibili sulle carte da gioco; là, in fondo, quasi in penombra, il gestore, solitamente intento a sistemare bottiglie e bicchieri, vigile su tutto quello che accade intorno e fuori, sulla strada, in contrada, in paese. Il quadro dell’osteria è questo. Una finestra spalancata sulla vita della comunità, aperta da secoli, da sempre. Un balcone al quale si affacciano di volta in volta il vagabondo e il carrettiere, il nullafacente e l’artigiano, il nobile decaduto e il giovane politicante. Gli estranei, passando davanti, guardano; taluni con diffidenza, altri con invidia, qualcuno con disprezzo. L’osteria non si cura di loro, se non per dedicare alla vita «di fuori» qualche chiacchiera e fugaci riflessioni, per sprecare un sorriso, per inscenare scherzi e burle. Con distacco; perché la bettola è un altro mondo, un porto franco, un pianeta a sé nella galassia della vita veneta. I valori, le idee, gli uomini qui sono diversi; spesso capovolti nella rilevanza e nelle gerarchie: magari conta di più il perduto ubriacone del ricco mercante e fa più testo l’opinione del ciabattino o del carrettiere di quella del prete studiato.

Questa è l’osteria: la casa del vino e del gioco. Il luogo dell’esercizio profano del vizio del bere; lo spazio ludico, creativo, dove la sregolata fantasia diventa invenzione e piacere condiviso. Forse per questo la bettola non è mai garbata molto all’ordine costituito, che l’ha sempre giudicata pericolosa, estranea al buon senso comune e ai comportamenti consoni; fonte di destabilizzazione, insomma.

Per questo l’osteria ha mantenuto nei secoli il suo carattere alternativo, la vocazione a essere diversa; una voce libera nella piazza, un sorriso sullo scenario di una vita spesso miserevole, un rumore dirompente nel mormorio di tanti lamenti.

Ma nel tempo anche questa osteria è cambiata; pur mantenendo intatto (almeno fino ai primi decenni del secolo scorso) il suo carattere dirompente di «altro mondo», il volto con cui si è presentata al pianeta di chi stava fuori non è più stato lo stesso. Una volta la sua funzione si limitava a offrire da bere e ospitalità a occasionali viandanti o a lavoratori del luogo; era un ritrovo differenziato sia nella struttura che nella qualità del servizio; il suo ruolo tuttavia non variava di molto da quello di semplice «esercizio commerciale della mescita».

Le cose sono lentamente mutate un paio di secoli or sono, quando l’osteria ha cominciato ad assumere spessori e significati diversi. Con la rapida e costante ascesa della classe borghese, con lo sviluppo dei traffici e dei commerci, con lo spostamento del centro della vita di relazione dai salotti alle piazze, la bettola diventa il motore di un’esistenza sempre più veloce. In osteria cominciano a circolare discorsi e pensieri politici, i nuovi leader cittadini o di paese trovano attorno ai tavoli non soltanto l’opportunità di chiacchierare o giocare a carte, ma anche quella di progettare le sorti della comunità. Tutto questo naturalmente puzza di sospetto al naso dell’autorità pubblica e morale. La guerra del clero alle bettole è quasi santa: dai pulpiti e o nei confessionali la lotta al «cuore di ogni vizio» diventa sempre più puntigliosa e intensa. Ma l’osteria non demorde, all’inedito ruolo di disgregazione aggiunge quello di sovvertitore degli antichi costumi rurali: arrivano i divertimenti moderni, i balli e, poi, i nuovi mezzi di comunicazione di massa, i giornali, il cinema. È la stagione della «bettola rivoluzionaria». Non dura molto. La città e la vita della comunità si trasformano ancora: arrivano i bar, luoghi più di passaggio che di esperienza collettiva. La gente sta maggiormente chiusa in casa; ci sono il telefono, la televisione; l’osteria non è più (soltanto) il luogo del vino e del gioco, ma quello funzionale al lavoro, dove l’importante è concedersi una pausa o mangiare qualcosa, velocemente e senza turbare la continuità produttiva. La vecchia osteria muore, lasciando il posto, nell’ultimo atto della sua storia, alle più sofisticate enoteche, dove è importante bere bene più che molto, affinare il gusto, riscoprire il piacere della chiacchiera o semplicemente tenere un bicchiere in mano scrutando imperturbabili lo smartphone.

Naturalmente i giudizi sull’evoluzione dell’originaria bettola sono controversi, equamente divisi tra rimpianti e compiacimenti. Rimane il fatto che l’osteria ha rappresentato un luogo emblematico nella vicenda delle genti anche venete. Per questo vale la pena di raccontare questa storia. Le pagine che seguono, in buona parte già pubblicate in un volume del 1985 (“La casa del vino e del gioco”, a cura di Toni Grossi, mp edizioni) e ora riproposte da Banca Patavina, sono solo un assaggio: il tentativo di ricostruire il quadro della vita delle osterie dal Settecento a oggi, cogliendone alcuni aspetti giudicati significativi.

Niente di più. Uno spaccato, si potrebbe dire, di vita di casa, senza la pretesa di narrarla o capirla interamente. Con un po’ di distacco, ma tanto affetto e un briciolo di nostalgia.

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